Frutta candita, glassata, fondants, demisucres, marrons glacés, gelatine, confetture, sciroppi, conserve, confetti alle mandorle, ai pinoli, ai pistacchi. E ancora, cioccolatini ripieni di violette, cremini, gocce di rosolio, pasta di mandorle, praline, meringhe, torroni, bonbon…
Non è il Paradiso, ma la più antica confetteria d’Italia: la “Pietro Romanengo fu Stefano”. Qui, nel cuore antico di Genova “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, il tempo pare essersi fermato al 1850, quando Pietro Romanengo ereditò l’attività dal padre Stefano e decise di arricchirla di marmi, legni pregiati e lampadari. Siamo in Piazza Soziglia, a ridosso di un labirinto di vicoli costellati d’odori, panni stesi e personaggi che sembrano usciti dalla penna di De André.
La bottega dei Romanengo è un vero e proprio salotto-gioiello, che riecheggia i fasti e lo stile delle confetterie parigine: vetrine scintillanti impreziosite da altorilievi marmorei, pavimenti in marmo policromo, soffitti affrescati su seta e decorati a stucchi, maestosi lampadari, scaffalature e banconi in legno di palissandro intarsiato… Tutto, alla Romanengo, sa di bello. E di buono. In realtà la ditta nacque alla fine del Settecento, quando Antonio Maria Romanengo, nato a Voltaggio, aprì un negozio di droghe e generi coloniali.
Non m’ero mai accorto che Romanengo sapesse condire tanto squisitamente
ogni sorta di frutta! (Giuseppe Verdi)
Fu il figlio Stefano, inizialmente, ad avere l’idea di dedicarsi alla produzione di frutta candita e di confetti, secondo i canoni dell’antica tradizione genovese, dando inizio anche alla produzione delle “novità” francesi di confetteria e di cioccolato. Mentre Pietro portò la confetteria a occupare un posto di rilievo nella produzione dolciaria, genovese ma non solo. Ben presto, infatti, il nome della “Pietro Romanengo fu Stefano” (denominazione immutata fino ai giorni nostri insieme al marchio che raffigura una colomba con un ramoscello di ulivo, auspicio di pace dopo le guerre napoleoniche), divenne molto noto anche fuori dalla città ligure.
Ed era inevitabile, vista l’eccellente qualità dei prodotti e la cura nel confezionamento degli stessi. Iniziarono così ad arrivare ordinazioni, non solo da eminenti personaggi protagonisti della vita economica e politica locale dell’epoca, come la famiglia Doria, la famiglia Grendi, e la duchessa di Galliera, per la quale la consegna di confetteria e di canditi nella residenza di Palazzo Rosso era addirittura giornaliera. Ma anche da parte di importanti personalità provenienti da altre regioni, come la Duchessa di Parma e Giuseppe Verdi. Quest’ultimo scrisse una lettera al suo caro amico Arrivabene, conservata oggi presso il museo del Teatro alla Scala di Milano, dove elogia proprio i canditi Romanengo, di cui il Maestro di Busseto era golosissimo. «Caro Arrivabene – si legge nella missiva -, nemmeno per sogno ho voluto “confutarti”. Vivendo tra queste “dolcezze” non m’ero mai accorto che Romanengo sapesse condire tanto squisitamente ogni sorta di frutta. Me lo dissero alcuni di Parigi a cui avevo mandato di quest’opere di Romanengo. Fatta questa scoperta ho voluto fartene parte».
Oggi l’organizzazione produttiva di Romanengo segue ancora il modello del tempo che fu, con i reparti di un grande laboratorio di confetteria: fourneau (frutti canditi e confettura), chocolat (cioccolato e cioccolatini), dragées (confetti), office (lavorazione dello zucchero), four (lavorazione della mandorla e forno).
La fedeltà ai ricettari dell’antica figura professionale del “confiseur – chocolatier” e all’arte genovese della canditura permette la fabbricazione artigianale di un’ampia gamma di specialità dolciarie. Come il mitico Torrone al pistacchio della Regina, nato da una ricetta originaria del Montenegro donata dalla regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III.
Nonostante siano trascorsi oltre due secoli, la filosofia dell’azienda è rimasta sempre la stessa, lungi dalle logiche industriali e rafforzata dal costante e tenace sentimento che la famiglia trasferisce all’azienda stessa. Una filosofia basata sui valori, sulla tradizione e sul suo forte legame con Genova. Nonostante le innovazioni tecnologiche, infatti, alla Romanengo non hanno mai ceduto alla tentazione di trasformare la ditta in industria. Perché perdura la volontà di preservare la dimensione artigianale ed esaltare la qualità e la tradizione, per poter continuare a tramandare la cultura del bello e del gusto che da sempre caratterizza la famiglia. Tanto che molti macchinari sono gli stessi di un tempo, come la macina in pietra del 1861 “De Baptiste” che frantuma il cacao. O le raffinatrici di mandorle in pietra di granito della metà dell’Ottocento. Fino alle “bassine” di rame originali, utilizzate nel periodo di Natale per confettare le spezie.
Qui, insomma, si difendono e si tutelano il sapere e la cultura dell’eccellenza che gli avi hanno saputo trasmettere di generazione in generazione. Ed è forse questo l’ingrediente segreto che rende i prodotti della “Pietro Romanengo fu Stefano” unici al mondo.